c'era una volta in Carfizzi

<< Chiedo venia per la presunzione! Forse dopo il paragrafo:
“ non mi piace che l’informazione che passa sia unicamente quella che racconta solo quello che resta, anche perchè per comprendere ciò che resta bisogna conoscere quello che c’era, raccontarlo, parlarne..”

Andava aggiunto in corsivo “C’era educazione, rispetto, modestia e pudicizia; c’era armonia, fraternità, disponibilità e cooperazione; c’era la pace, pur in tempo di guerra!”
(da ‘C’era una volta in Carfizzi’ di zio Enzo Rizzuto)>>.

questo voleva essere il commento lasciato da mio zio Enzo Rizzuto, al mio post di un paese che scompare.
questa è diventata l’occasione, ora, per aggiungere alle mie parole su quel che poteva esserci del paese, le sue di quel che veramente c’era. e io vorrei cogliere l’occasione per far leggere a tutti il paese che era, le sue case e le sue persone, le sue parole e le sue pietre, i mestieri, povertà e racconti, silenzi e profumi.
perchè questo fan le parole: raccontano, incantano, accendono mondi.


C’era una volta in Carfizzi, di Enzo Rizzuto

C’era una bella chiesa a tre navate, col suo classico campanile, intorno alla quale, in tre direttrici, orbitavano tutte imbiancate a calce, piccole casette prospicienti strette viuzze, tal che a vedersi era spontaneo comparare il tutto ad un lillipuziano paese da fiaba.

C’era, gradito all'orecchio, l’aritmico zoccolio, che all'alba ed al tramonto d’ogni dì, facean le lunghe fila d’asini nel calcar gli sdrucciolevoli acciottolati della “Cona” della “Vascialia” e del “Palacco”.

C’era il mietitore, inguainato in un largo, lungo e bianco camisaccio di tela di lino, dalle dita incannulate, con in testa, a far da cappello, un variopinto fazzoletto con i quattro angoli annodati, che grondante sudore ed allegro ad un tempo, jermitava con l’arcuata falce le turgide e nere spighe di grano duro, pago di questa magra e spesso unica ricompensa per un intero anno di dura fatica.

C’era il calzolaio (non il ciabattino) esperto nel fabbricar artigianalmente scarponi chiodati, ad operar seduto ad un lato del quadrato bischetto, sempre attorniato da un nugolo di apprendisti; chi intento ad incerar spago, chi a raddrizzar chiodini, chi a batter suola, chi ad affilar trincetti e chi, d’estate con un ventaglio intento ad arear il “Mastro” e da lui tener lontano le noiose mosche, badando però a non prendersi nello stomaco le gomitate o i pugni del “Mastro” stesso nell'atto in cui, cucendo, a due mani lo spago tira.

C’era l’incomprensibile vociar degli avvinazzati, proveniente dalla cantina dove, pur essendo “vietato l’incrocco”, hanno egualmente giocato al padrone e sotto, a volte sganasciandosi in risate, a volte provocando qualche rissa, spesso sedata da malcapitati pacieri.

C’era penuria di vino, lusso per pochi, desiderio per molti, per cui, gradita ed attesa occasione d’incontro tra amici e compari, era l’inveterata usanza d’approntare, in ogni famiglia, nel dì dell’uccisione del domestico maiale, un’agape agreste, destinata a finire con la generale sbronza dei conviviali, l’unica in grado d’appagar la loro antica arsura, e da loro tener temporaneamente lontane le tristezze del ieri  e del domani.

C’era penuria di acqua potabile, reperibile in poche sorgenti, site nei boschi che fan da verde corona all'abitato urbano; E malinconico a vedersi C’era al pomeriggio il frettoloso rientro delle massaie provenienti dalle fonti con i barili di legno legati a corda, proprio là dove la schiena cambia nome, che sudate e mute, s’adoperano a raggiunger casa al più presto, per approntare il desinare al marito ed ai figli, lì lì per rientrare dai campi.

C’era, quasi mitica parca la nonnina che con la conocchia  sotto l’ascella, filava il lino che in autunno, avea cardato ed impupato, dopo che il marito o il figlio col rustico mangano, sgusciandolo dall'originario legnoso involucro, trasformato l’avea in tessil fibra.

C’era la donzelletta seduta fuori dall'uscio di casa, d’estate intenta ad intrecciar canestri di paglia; e ad arabescarli d’amaranto e verde scarabeo per intonarli con le coperte di lino e lana che, d’inverno, avea tessuto sul telaio antico, all'antica maniera delle avole a lei tramandata, sperando di perpetuare gelose tradizioni.

C’era , alla vigilia di ogni matrimonio il tradizional ballo dell’addio  al nubilato, organizzato in casa della futura sposa; rara occasione d’incontro per altri platonici amanti, costretti a vedersi sol da lontano, ed a colloquiar con gesti da mimico linguaggio, diverso per ogni coppia perché non appreso su formulari o testi didattici per sordomuti, ma da essi soli inventato a guisa di segreto cifrario.

C’era il bimbo, che correndo scalzo, inseguiva un vecchio, arrugginito e rumoroso cerchio di bicicletta o che si soffermava a giocar con i coetanei alle trottole di legno; ai bottoni; a battimuro od allo squiglio.

C’era il giovinetto che giocava in piazza con gli amici, calciando una palla di stracci o un rattoppato pallone di rugoso cuoio, nuovamente rompendo il già lesionato vetro di una tarlata finestrucola, provocando così l’isterica reazione della massaia, le cui stridule gridate richiamavan all'assemblaggio gli astanti, a curiosar votati come divario alla noiosa inerzia, provocata dal non succedere mai nulla di nuovo.

C’era, al pomeriggio, sul ballatoio antistante l’Ufficio Postale, un raggruppamento di persone intento a ricommentare i soliti avvenimenti ed a spettegolar di tutto, nell’attesa che, senza fretta alcuna il procaccia arrivasse dal bivio , con i sacchi della posta infilati nelle capaci tasche della bisaccia, inarcata sul basto di una placida asinella.

C’era per rompere il solito tran-tran di tanto in tanto, applaudito dall'intera incantata popolazione, l’esibizione in piazza di una zingaresca Compagnia di prosa, che facea immancabilmente gli spettatori traslare dalle lacrime provocate da lagnosi drammoni romantici alle lacrime da risate, dalla comicità delle farse finali suscitate.

C’era la lucerna ad olio col suo sfrigolante stoppino ; il lume a petrolio e la lampada ad acetilene con i loro maleodoranti effluvi.

C’era un mulino dalle mole di pietra azionato a vapore ed un frantoio oleario a torchio.

C’era una sola automobile, due motociclette, tre biciclette.

C’era , prelibato per rusticani palati, il liquore marca Gemma, il Triplesec ed il famosissimo ricercato Doppio Kkuummeell.

C’era educazione, rispetto, modestia e pudicizia.

C’era armonia, fraternità, disponibilità, cooperazione.

C’era la discarica delle immondizie dislocata quasi in piazza; la malaria, la tubercolosi ed anche la fame.

C’era la pace, pur in tempo di guerra !
Per chi ha vissuto quello, ad un tempo aureo e plumbeo periodo, ora c’è solo un po’ di nostalgia; fra non molto ci sarà  l’oblio.



questo è un omaggio a una persona che ha conosciuto profondamente Carfizzi; che l’ha vissuto, visto cambiare, saputo raccontare, ai grandi e ai piccoli, anche oggi, che sembra siano passati secoli dalle sue parole.
una persona che da sempre, per me, è stato ‘il racconto’, di tutte le cose di cui ho ricordo, dalle favole alla storia, dalla matematica alla filosofia, agli indovinelli, alle parole, alla loro magia, ai loro mondi, ai loro perchè.


Carfizzi
P.za Tassone ex P.za Marconi
Carfizzi
P.za Tassone ex P.za Marconi vista dalla Croce

parla di un altro tempo, certamente, e lo fa con un altro tempo. ma la magia è in quell’attimo in cui quel tempo ritorna, la magia è crederci ancora; è, per me, sentirmi sempre la bambina che corre nella corte, si perde nei quadri, li numera, prende nota dei colori e delle cornici, si attacca ai titoli dei libri nello studio, tempera le matite per poi rimetterle nel portapenne sopra la scrivania.
il tempo è in quel temperare, tirare a nuovo lo strumento della scrittura, per eludere i giorni, gli anni e sfuggirne, nel racconto.


foto_f e r d i n a n d o s c i a n n a


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le foto di Carfizzi in alto sono tratte dal sito mondoarberesco di Enrico Ferraro

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